marioroccato.it

Vai ai contenuti
La scrittura è la musica delle parole,
dove la trama è il sovrapporsi delle immagini interiori
che trascorrono i pensieri dei suoi personaggi.

Scrivere è dunque la gioia - e a volte anche il dramma - del visitare le evanescenti
ma anche profonde intimità dell’anima.

Per conoscere il darsi degli eventi è sufficiente stendere la loro cronaca;
per creare una narrazione autentica dovremo penetrare la sostanza
del nostro costante sogno del reale.



PREMESSA

Scrivere è una gioia che mi ha accompagnato per l'intera, mia ormai lunga vita.
Ma solo da pochissimo ho deciso di andare alla ricerca polverosa delle tante mie pagine
accumulate nel tempo, libri interi che avevo in qualche modo dimenticato nei cassetti della memoria.
Solo oggi ho dunque deciso di proporre i miei scritti agli editori, nella viva speranza che almeno qualche lettore
possa condividere la mia, sicuramente immodesta, ma sincera ricerca della bellezza.
Mario Roccato è nato a Como nel 1953 e vive a Como.
Laureato in Filosofia a Milano ha da sempre approfondito, assieme ai temi ontologici della materia,
le componenti psicoanalitiche della conoscenza di noi stessi.
Manager per anni, ha poi fondato uno studio di comunicazione d’immagine per Aziende Multinazionali.
Ha negli anni organizzato e diretto oltre 40 importanti eventi con i massimi esponenti della filosofia.
Da sempre appassionato di fotografia e cinematografia, e dopo la realizzazione
di numerosi cortometraggi ha scritto, prodotto, diretto e montato il proprio primo lungometraggio
[Scrivere un amore, 2020, 82’],
che ha ottenuto ad oggi oltre 350 primi premi internazionali.
Ora pensionato, sta rivedendo e raccogliendo tutte le proprie opere di scrittura,
sia filosofiche che letterarie e di saggistica, che propone agli editori.
INDICE

 
MATRIMONI
0vvero, i contratti dell’amore
*
IL VECCHIO PESCATORE
e una voce lontana
*
UN DIALOGO NELLA NOTTE
*
THOMAS IL TABACCAIO
*
PENSIERI SPARSI
le memorie di un attore, per voce sola


*****
***
NELLE LIBRERIE DAL 9 DICEMBRE 2024


il saggio


PER ORDINARE I LIBRI
direttamente dall'editore



*****

XVII RACCONTI
brevi oltre ogni cosa



Mi appare difficile, forse impossibile scrivere anche una sola sinossi per questi racconti che, alla fine,
si sono distesi tra le mie mani su piani inclinati, dove le cose e i personaggi non appartengono a una trama univoca,
pur progettandosi nella ricerca di un senso.
Qui gli spazi, e i tempi diversi che inevitabilmente loro appartengono si intrecciano,
laddove quelli che dovrebbero essere i protagonisti potrebbero solo sognare,
ma anche essersi trasferiti in un teatro di vita oltre l’apparire.
Lascio dunque al lettore il compito di farsi accompagnare su questo terreno scivoloso
sul quale io stesso, scrivendo, ho preteso di passeggiare.


Ha deciso di lasciare quel letto insulso; che scenderà a farsi un caffè per ritrovare, se non altro, qualcosa di vero e nelle cose.
Poco dopo, sta già tentando di scrivere di questa veglia nel sonno. Così come fanno gli scrittori, che sfogano la vita nelle parole.






Noi ora, se guardiamo bene e dall'alto, vediamo questo giocatore che sta sfogliando le banconote con le sue mani lunghe, e magari sta sorridendo.
E vediamo che la piazza è immensa e vuota, se non guardiamo alla luce del bar che si proietta in una inclinazione geometrica, sulle piastre del selciato.




Si è seduto in un piccolo bar, all'aperto.
Il cielo è coperto da nuvole colore del piombo, mosse veloci dal vento di mare, teso.
I pochi turisti si sono rintanati nei loro alberghi. ‘Perché non amano il mare’ – lui pensa.
La stagione sta finendo e l’onda si gonfia e, quasi una rivalsa, si libera nella corsa lunga.
I tavolini sono gialli, il colore del sole.
La cameriera gli ha posato la sua tazza fumante, e ora è tornata al rifugio dell’edicola piccola,
tra le bottiglie esposte in fila, e i bicchieri impilati.
Cigola un po’, quella struttura nata per l’estate, sotto il vento scirocco.
Lei si stringe nella felpa scura; ma è l’abitudine davanti all'autunno.

 



Quando riapre gli occhi riesce a stupirsi d’essere vivo, ancora.
Nel sogno doveva partire, e stava salutando persone che non conosceva.
Gli davano la mano, e lo guardavano come si guarda qualcuno che andrà lontano.
E c’era qualcosa di triste, nei loro gesti contenuti: una muta compassione.
Una stazione? Sì, forse era una stazione e l’aria era grigia, di piombo pesante.
Nessuno sorrideva – lui se n’era accorto - perché sapevano in qualche modo della gravità,di quel suo andarsene.
Una donna piangeva, ma nascondendosi.




E la luce amica della stessa candela – che non s’era consumata tutta –
ora danza i loro volti, che sono sereni, anche se disegnati da una malinconia.
“Tu sai come mi chiamo, a allora mi conosci”.
Lo aveva detto senza alcuna pretesa, così, come si parla del tempo.




E per molto tempo l’uomo ricorderà di aver respirato,
nel suo breve girarsi di schiena, e sollevarsi sulle punte per spingere una borsa in alto,
qualcosa che forse era il suo profumo; ma forse era un odore,
di lei, qualcosa che ora, nel tempo trascorso ancora gli appare come
una specie di impronta
(ma cosa si può dire, del ricordo? se non la sua ingannevole bizzaria?)


La collega, invece che uscire prende il telefono e scambia poche parole.
“Pronto. C’è il solito caso… Sì… Mandi tu qualcuno?”.
Ludo sembra sollevato per la premura.
“Sì. Però io non attendo, ok? Bene.”
Riappende e sorride all'uomo, e ora sembra più affettuosa, materna quasi.
“Ora ti mandano qualcuno che se ne intende”.
Ludovico ride. “Perché, tu non te ne intendi, di identità?”.
Maria ora ride davvero.
“No Ludovico. Non più! Ciao”.
E si gira veloce, uscendo trasparente dal muro in fondo.




Accadde in un pomeriggio di dicembre.
Mi stava mostrando la sua casa, e si muoveva in una breve danza discreta,
nel suo mezzo sorriso che sembrava distratto.
Un volo d’ape, pensai poi vergognandomene, e senza motivo.
Sapevo che la notte, fuori, avrebbe promesso il grigio lucente di una neve.




Ci sono dei fiori, che la donnetta che se ne prende cura ha messo in plastica, che non si possano sciupare. E vorrebbe allora correre via, e correre verso un fioraio qualsiasi per portare alla madre un grande mazzo, di quelli di primavera che lei dipingeva, nei suoi quadri pasticciati, perché li amava sopra ogni cosa.
E vorrebbe tornare a quella casa che ha appena lasciato nella sua solitudine vuota e gridare per vedere se qualcuno, ancora, potrà affacciarsi. Ma gli scende solo una lacrima, una sola e pesante, che sparge col dorso della mano e forse non vuole che alcuno, lì, se ne possa accorgere davvero.    



Fuori, la notte piena le dice che il mondo di tutti è stato obbligato al sonno. Dormono, per recuperare la forza di vivere le cose del giorno. Per potersi ripetere.
Vorrebbe piangere un po', magari per sentire il proprio piccolo lamento. Ma non può farlo: lui si sveglierebbe e le chiederebbe il motivo.
Lei, allora, dovrebbe dire che niente. Che, magari, lo ama.



Lui lo sa (o forse non lo sa) che dietro quella porta c’è qualcuno che quella scuola
l’ha fatta costruire, e sicuramente è lì seduto alla sua pesante scrivania e ha appese
attorno le tante lettere di chi lo aveva voluto ringraziare per quella sua generosità,
per tutto l’amore che aveva voluto dedicare per il bene dei tanti giovani.
 
Dietro quella porta c’è Dio. E il suo silenzio è lontano.


“Io, sto bene. E tu?”          
P. sta bevendo il suo bicchiere, e vede che la mano che lo regge s’è come annodata nel tempo.
E vorrebbe allora dire che anche lui sta bene ma c’è una fatica e, allora, rimette il bicchiere sulla cerata del tavolo. Infine lo dice, ma sapendo di mentire.
“Io… Anch’io. Grazie.”
Ma appare davvero che quella donna non gli creda affatto, e forse lo sa che a nulla varrebbe per l’uomo fuggire, perché sarebbe la corsa di un vecchio.
Così gli sorride, e piega il collo come a pensare cose lontane.


E nella camera grande fu lei a baciarlo subito, e mostrando una passione che, subito, l’aveva anche turbata.
E fu una notte dove anche il tempo aveva voluto rallentare, anche se non parleremmo certamente di amore,
e forse perché mai fu richiesto. Fu, invece, lo scoprire quella fusione dell’odore dei corpi,
quella che non avvertiamo nell’aria ma s’aggrappa dentro la pelle.


Quell’estate durò poco per i due studenti, perché R. aveva visto una ragazza a un tavolo vicino,
e la ragazza gli aveva anche sorriso; ma R. non aveva risposto, al sorriso.
Solo, ne aveva scritto sul s.uo quaderno, e per una notte intera.
E sul quaderno le parole dicevano di un amore impossibile, e dunque di un dolore immenso.
Così, scusando una stanchezza, avranno lasciato le isole e il loro vento.


E dopo, quasi subito lui sta pensando di appoggiare una mano sul braccio fermo di lei. E pensa che le starà chiedendo qualcosa.
 
Ci vedremo? qualche volta?”
 
E pensa che lei risponderà, ma con parole vuote.
 
Si. Ma lasciamo passare un po' di tempo… ok?”
 
E, di questo ne è certo, la donna lo avrà detto ma con voce  rotta. Ma forse è il rumore della pioggia.


E ora, poiché l'eco di nuovi tuoni sta riempiendo questa scena d'estate, anche la luce s'è spenta, come per una sceneggiatura intelligente, ed R. sta seguendo il labirinto dei disegni sul vestito della donna che è leggero e che, anche un po',  traspare il corpo. E l'uomo, come d'attore che ricorda una battuta doverosa, ora le dice di voltarsi. E lei si gira, e ha le mani che ricadono sui fianchi, fino alle gambe.
 
Ora R. la può davvero guardare senza pudori, e sa che lei si attende che una mano si sollevi fino a toccarla davvero. E la sta immaginando, questa mano che la fruga dove vuole.
 
Ma la mano non la tocca, come a punirla della sua sfacciata pretesa, di cui dovrebbe davvero vergognare.
 
Batte il piede
del cavallo stanco,
e riluce l’oro dei fianchi più del sole  che gira,
solitario la foresta.
Mai scese la staffa dura e cinta ha la testa
di mille notti di luna; ma non si ferma
il viandante a guardare
nella foresta ciò che non vide     
a fianco della notte.

***



Loro dormono nel buio.
 
C’è una sveglia che sta suonando. Lei, che si gira subito per fermarla, guarda l’ora ed è incredula. Ma poi ricorda.
 
S’appoggia al cuscino, e i lungi capelli neri la stanno avvolgendo.
 
Si volta a guardare il marito, che sembra non aver udito.
 
Qualche istante.
 
Il silenzio.
 
Poi lei sussurra.



Eppure lui si sta ancora guardando, nello sguardo che dall’alto scende obliquo,
e guarda senza più stupire di nulla.
E ha sentito qualcuno, lì nella casa e accanto al suo letto di morte,
che sta raccontando di una primavera, nella quale sarà proprio lui, finalmente,
a ricevere un importante premio.




Oggi (e tu lo vedi) ti sto dunque pensando.
E vorrei abbracciarti, come era quando avevamo
negli occhi l’orizzonte di una richiesta.
Ma ti lascio lì, con le tue pagine che forse sono rilette,
perché forse furono scritte persino da te, che oggi ne sembri avvinta.
Ti penso. E vorrei che tutto finisse.
Che qualcosa, infine, avesse un nome vero.


Il morto non sa di essere morto, proprio non lo sa.
E ora anche tu che sei morto, amico mio non conosci l’inclinare di questa luce,di questo pomeriggio che è quasi d’estate.
Ti guardo, e sei disumano allora in questa primavera fuori,che si sporge come se nulla fosse.


La scrittura breve di un amore che forse non è mai esistito,
ma che potrebbe esserci stato da sempre.
Lo scrivere che si riassorbe in un nulla di cose, che potrebbero ben essere ogni cosa vera.




Beve, e quella schiuma gli sembra venire anch'essa da questa pioggia che ormai è dirotta.
Alzarsi? Anche lui entrare? Ma a che scopo? Non è forse questo uno dei tanti temporali che hanno accompagnato i lunghi anni del suo esserci? E c’è dunque, improvvisa, una noia rassegnata, ora che gli scende come il liquido e s’allarga: una pozza che digrada e che, in qualche modo, gli dà l’avvertenza che anche lui ha un cuore che continua a battere, forse, perché altro non saprebbe bene che fare.



Certamente il tempo fu lungo del mio vivere, se lo misuro, e allora tante furono anche queste primavere, e il loro sogno. E poi.       
E poi le estati, col loro volto di metalli infuocati, e dunque mi appare, incredibile, e ancora magari un volto,
uno dei tanti ma che sta parlando muto, perché non c’è aria che sorregga il suono, quando la luce abbaglia.


Dopo, Helga gli era attorno, e gli aveva sorriso come si fa a un amico antichissimo, come si fa a se stessi, a volte.
 
Allora lui le chiese una volta, “Mi ami?”
 
E lei rispose sorridendo, “Certo che ti amo”.
 
Ma lui vide come dell’acqua, sulle labbra di lei un po’ contratte, come un’immagine rallentata.
Uscì allora di casa, e vedendo la neve alta che s’accostava alla porta, chiese del suo cucciolo.
 
Helga lo guardò stupita, forse preoccupata, e lui sentì che una distanza ormai infinita li separava.
 
Finse di scendere in città, per fare qualcosa, ma Helga non lo vide più tornare.


Anche i due amici stavano passeggiando, quel giorno.
E la linea obliqua dell’onda piccola sta ora disegnandosi nel colore del cielo d’autunno.
E stanno fumando appoggiati alla ringhiera. E tacciono.
Ma Paolo alza una mano a indicare un poco lontano, e mostra una barca vecchia,
che sembra la scultura dimenticata da un tempo lungo e che, dunque, nessuno vorrebbe spostare.



La mano ha toccato l’orologio nella tasca.
 
Ma il tempo non gli pesa, e allora si avvicina ancora alla finestra, e vi appoggia la bocca.
 
Molte cose gli si stanno stringendo d’un tratto, e lo avvolgono lasciando
un lento sciogliersi intorno: anche il respiro,
o l’immagine lunga che si va creando sorgendo dal rumore d'acqua cedente, fuori, nei canali.
 


Spesso, lui ripeteva.           
“Ciò che sento, ora, è una nube scura qui, nella testa”, e si indicava la calvizie sino alla nuca.
Poi proseguiva.
 
“Questa notte sarò contento, perché dovrà diradare, questa nuvola, dovrò risolverla e fare piovere”.
 
Sorrideva, e concludeva sempre la frase ridendo con queste parole.     
 “Ogni volta che piove ancora, cresce l'erba più in alto”.


Eravamo come pescatori sulla riva del mare: nella sera tranquilla e calda annodavamo la rete
senza sapere il momento di una partenza che ormai credevamo inutile.
Fu come quando Jeanette si sedette accanto a noi sopra le tazze fumanti, e ci disse il suo amore. Il silenzio.
 
Ancora quella voce ci chiamava, dolce, roca e morbida dal fondo. Non ci saremmo svegliati mai.
 
 
Cos’era, Jeanette, la tua bellezza? Cosa scoprimmo dietro essa se non ancora la sua immagine,
la felicità di un andare infinito senza domande?
 
Tutto convergeva. Due linee spezzate ritrovavano l’unità, scivolando sulla superficie.
 


Vorrei risvegliarmi da questo sonno che è evidente, ma non serve neppure sapere che se davvero apro gli occhi, a dirigere la vita, ora, è solo la semplice aria familiare, l’odore consueto di questa casa e della tua presenza, le gambe incrociate, le fodere e le foglie dipinte sui cuscini e i tappeti di lana; forse, ancora più semplice è la notte, fuori, che ci ha chiuso in questa stanza dentro di noi.
Io lo so, che tutto continuerà a muoversi. Come queste tende nell'aria fresca, come il pendolo col suo occhio oscillante.
 
Vorrei dormire; e intanto penso che è davvero reale, forse, questo amore.  Ma sono cose che non  si  possono scrivere.
 


E forse, infine si saranno guardati, i due attraverso la finestra grande, e allora ci sarà stata una donna in piedi, e con un libro chiuso in una mano, e forse con la bocca anche socchiusa, come fa chi vorrebbe dire, ma poi tace.
 
E ci sarà l’uomo che, magari, dirà qualcosa di breve, un nuovo istante della voce.
Eppure, non ci sarà suono in questa voce, perché, ormai, è sceso il buio della notte.
 


Lei stava rivestendo gli slip, che erano del colore della carne, e io accendevo una sigaretta.
In tutti quegli anni non parlavamo mai nel mischiarsi dei corpi, forse per non disturbare l’emozione. Che pensavamo d’amore.
 
Fu qui che lei disse qualcosa che non compresi, e dunque la guardai sorridendo, come chi voglia scusarsi per non aver capito.
Così lei, nella luce del lampione si guarda in uno specchietto che intanto ha estratto dalla borsa, e si tocca un occhio e mi ripete.
 
“È finita”.


E dunque c’è un lettino che si affaccia sulla riva, e una sedia aperta su questo mare, che è mosso da un vento teso.


E anche noi, se ci guardiamo bene, avremo una nostra ombra che ci sta accanto, che ci dice che siamo vivi, che, un nostro spazio, lo pretendiamo.
 
E se qualcuno ci chiedesse un seguito, delle nostre immagini scritte e poi gettate, forse non avremo da dire se non un sorriso un poco triste, quello che ci viene davanti a una malinconia, che potrebbe essere il volto stesso, del nostro continuare.
 
 
 
 
 



ALTRI RACCONTI



Dopo tanti anni di scrittura ho imparato che tu, che ora mi stai leggendo, vorrai essere condotto dentro a un mondo che infine non esiste, perché è questo l’orizzonte che sempre ci attira, nelle opere dell’arte. E dunque scriverò di un mondo altro, perché a nessuno interessa il vivere se non come metafora, e simbolo. Allora noi che scriviamo non siamo altro che pittori davanti alla tela, e poi abbiamo la pretesa di esporre le nostre opere e ce ne stiamo lì accanto, per leggere lo sguardo di chi passa sulla strada.


Ora, che ha fatto sapere – in una menzogna – di aver gettato le carte una volta e per sempre, sicuramente è libera di ascoltarle, quelle sue voci, come di chi si accompagna in un viaggio.
 
Ecco. Stanno ora parlando a questa notte estiva, e anch’esse ricordano perché il vivere è sempre un ricordare. E stanno raccontando, alla fine, che forse tutto è davvero un gioco, l’intrecciarsi di apparenze che si tessono in sfondi leggeri.
  
La notte è dunque il luogo che Sofia ama.
 
E poi ama anche la pioggia, perché collega la terra con il cielo.


Se lo vorrai, porta con te questo mio pensiero. Che non sia troppo tardi,
per riguardarci negli occhi e gridare ciò che, forse, non ha voce.

***

SCRITTI BREVI DI UNA VITA


Se l’amore dunque (o forse) ci attrae perché sfugge sempre ogni reale comprensione, allora l’amante esperto sa sottrarsi, sa togliere la propria immagine all’amante, si fa cercare, ché se fosse compreso davvero sino in fondo morirebbe, ai suoi occhi: il suo essere ne uscirebbe risucchiato.
Così l’arte dello scrivere e del parlare, e del comporre suoni è un’arte di assenze, di silenzi. Come disse un grande amante dell’arte, il senso vero del quadro sta fuori dallo spazio angusto della cornice: il senso delle cose sta sempre là, oltre, non nelle cose mostrate, bensì in quelle che non sono state dette, che non saranno mai dette.
Il senso è mistero, è parola di silenzio ed è dunque, e anche, ombra nella luce.
Amiamo il sapere in ciò che non sappiamo, e amiamo l’amante perché mai ci appartiene.






Se fosse in musica, sarebbe un "improvviso".
Così, è un ricordo, una confessione, un piccolo gesto d'amore.
a G.




."Cade già qualche piccolo fiocco gelato: dalla densità del cielo, questa sarà una grande notte.
Da sempre, ho colloquiato con il cielo.
Abbiamo spesso, insieme, colloquiato con il cielo
"Ricordi?..."




Vorrei ritrovare, qui, fra quindici anni lo splendido sorriso che mi è entrato dentro.
Se succedesse, sarebbe tremendo.
Ma lo vorrei comunque: con lei, la morte, è necessario essere chiari e coraggiosi.
E poi, in questo ultimo sole, chissà che tu non mi stia un po’ pensando: e basterebbe questo, forse, per affrontare la notte.






_______UNA FIABA_______




"Qui, guardando le stagioni trascorse e trascorrenti del mio giardino,
il reale dovrebbe per me decadere,
come un dire impossibile, in attesa di una vecchiaia veloce;
ma così non è stato (fortuna, o condanna) perché ho volato
"oltre, là", dove scorre un Ruscello di Bosco,
dove Querce Antiche raccolgono la saggezza di Mondo
dove una breve, luminescente storia d’amore
attraversa Tempo, l’incalcolabile."

a G.




POESIA
_______raccolta da una scelta_______



"Essere letti dà la stessa gioia del bere un vino
colore del rubino, spaccato dal sole
di un tramonto estivo,
quando la stagione ha già dato ogni frutto".

***

La voce umana è il primo strumento di qualsiasi musica, dove le parole pronunciate sono le note scritte sullo spartito.
Nel nostro dire le cose esprimiamo concetti che, se ben correlati, ci conducono a immagini precise, significanti; ma c’è sempre anche una melodia e un’armonia nel suono delle parole: anche una formula matematica potrà dunque avere, alla fine, una musica propria perché, pur parlando di figure perfette e concluse, può persino simboleggiare un infinito o un nulla.
Poesia e musica sono dunque tra le massime espressioni dell’essere umano perché assomigliano più al vento, al buio o alla luce, all’immischiamento d’amore quanto alla sofferenza. Nella poesia le emozioni diventano il canto della voce, una lirica che fa vibrare l’aria in una necessità profonda.
Come scrittore di racconti, di sceneggiature, e persino di libri di filosofia rimango debitore ai miei innumerevoli tentativi di essere - alla fine, ma forse sin dall’inizio – compositore nei suoni della poesia. Non so se io sia riuscito nella mia faticosa ambizione, ma sono certo che nulla avrei mai potuto scrivere in prosa se non ricordando che le parole hanno senso, autentico, solo nel loro saper suscitare il nostro sogno d’essere.
Questa raccolta è il risultato di moltissimi anni di ricerca e selezione, e ho fatto infine registrare le 42 poesie qui presentate dalle voci voce di un ottimo attore e una affascinante attrice, accompagnate dalla musica originale di Marco Sala, già mio prezioso collaboratore nella realizzazione delle mie opere cinematografiche.



***

 
CARO LETTORE
(al modo di una chiusura)
 
 Se chi scrive ha il diritto di dire, non ha quello di annoiare. E questo è il rischio che sempre si corre, quando ci raccontiamo le cose del mondo.
 Forse sei vecchio anche tu, o sei vecchia, o forse sei ancora giovane e ti starai domandato se fosse poi necessario giungere fino a questa mia ultima pagina.
Ma come possiamo fare?
Se, come i molti mi dicono, so scrivere le cose non è questo il mio vanto, perché sempre avrei potuto fare di più, e di più ancora;
ma, quando ti prende una malinconia che non è per questa o quella cosa, ma per ogni momento,
allora in qualche luogo la dovremo pure depositare, questa tristezza. Per preservarla, magari darle un asilo.
 
Oggi mi viene una tenerezza, ma mi metto da parte perché sono gli altri a meritarla.
Anche oggi, passeggiando, vedo la scia nera di noi che abbiamo sempre qualcosa da fare, e voi che mi passate accanto
e magari mi gettate uno sguardo ma poi, decidendo di non conoscermi, subito ripiegate in voi stessi e nel vostro affanno.
Così è giusto. Nessuno potrà mai giudicare. Ma è ora di concludere. E da scrittore lo farò raccontando ancora.
 
 
C’era dunque un castello grande e antichissimo,
di quelli dove le pietre si reggono tra loro come se dovessero raccontare qualcosa.
E c’era un viandante che, sul suo cavallo stanco e come lui molto vecchio, il castello lo aveva veduto.
Alla porta grande il ponte era sollevato. E da dentro quei muri si udivano le grida di una festa.
Non bussò, quell'uomo antico.
Non avrebbe mostrato a quel consesso felice le sue rughe segnate dal sole, e dalle piogge e dal vento che grida.
Per non intristire nessuno. Eppure, anche i festanti avrebbero forse apprezzato di averlo tra le mura perché,
in quei tempi ormai molto andati, erano i viandanti a portare le novelle, quelle lontane.
 
E magari attorno a un fuoco il vecchio,
nella notte e con la coppa in mano di un vino, avrebbe pure raccontato, di favole.
Così, anche la notte avrebbe potuto curvare sopra quella dimora senza tempo, per ascoltare anch'essa.
 
 
E anche i bambini alla fine, nelle loro labbra rosse di vita avrebbero sorriso.
Per, poi, addormentarsi.
 


CONSIDERAZIONI FINALI
dalla conclusione dell'ultimo mio racconto
Pensieri sparsi. Le memorie di un attore, per voce sola

Lo decido: è inutile continuare la mia scrittura; che sarebbe solo lettera morta e per sempre.
Sarà bello, ora, uscire per guardarla, la notte.
Sarà bello, domani, correrti incontro dicendo banalmente che ti amo – tu che non l’aspetti ma sorridi.  
E dopo, dopo il domani attendere che un vorticare caldo - d’autunno che non vorrebbe venire - ci portasse lontano,
dove ogni aver detto di noi si depositasse come polvere leggera.  
È notte, e il mio gatto dorme.  
E agita un poco la coda, nel suo sogno di sempre.  
E a tratti apre l’occhio e mi guarda.
E sapendo di me, mi sembra sorridere.  
È un applauso, il suo.      

L’ultimo di un sempre che non sarà mai, fortunatamente.
FINE
                 
 
___SAGGISTICA_______




Tutti noi ci chiediamo spesso se una realizzazione umana qualsiasi,
e cioè un’opera che ci sta dinanzi sia o non sia “d’arte”.
Ciò significa che, per noi, esistono opere dell’arte e opere che non lo sono.
Questi brevi appunti hanno l’ambizione di definire i criteri
che starebbero alla radice del nostro giudicare ciò che è “artistico”.

Di fronte all’urlo ogni filosofo dovrebbe posare la penna,
e sospendere per un istante ogni scrivere: ché se non sa scrivere contro
l’urlo, se non sa opporre un senso a ciò che si palesa nella più nuda assurdità,
ogni filosofare è nullo.
A volte è meglio tacere, piuttosto che pretendere senza forza possibile
di riacquietare le vibrazioni dell’aria, quando l’urlo le abbia lacerate forse per sempre.
(dal paragrafo "Il grido e l’urlo")

"Il sorriso forse è, il luogo degli dei.
Non vi fu mai né bene né morte, lassù sul monte più alto
dove essi dimoravano tra le nubi mosse dal vento
costante di mare."
(dal paragrafo "Il sorridere")


Alla ricerca di noi stessi liberandoci dalla menzogna delle idee dominanti,
ma liberandoci soprattutto dalle menzogne che raccontiamo a noi stessi.
Con un'analisi sulle più ricorrenti menzogne umane.

"…Uscire, ogni tanto, magari nella notte e cercarlo,
quel silenzio che ci hanno rubato.
E non avere paura di quel silenzio, anche quando
ci farà riflettere sopra noi stessi:
dopo l’iniziale smarrimento, potremmo scoprire che,
essere noi stessi, è infine una cosa meravigliosa.

(Dal Postscriptum finale)


Studio filosofico sulla paradossalità della ragione e del tempo.



Alla fine del libro il lettore avrà forse “scoperto” che il paranormale
può diventare anche una nostra “abitudine” al pensiero paradossale
di cui avremo parlato, e che dunque questo paranormale
lo possiamo persino sviluppare:
sarà l’abitudine a un pensiero in apparenza assurdo,
ma paradossalmente anche produttivo.


Il vivere visto come un gioco molto serio, in un esperimento paranormale
tra la Fisica Quantistica e il pensiero dell'antico Zen.
 

Un saggio filosofico sulla relazione tra l'esserci delle cose e il nostro pensiero,
e dunque sul pensiero che abbiamo di noi stessi.
La proposta di una visione del vivere e del tempo in una finale sospensione del giudizio,
verso l'esperienza dell'Attimo Fuggente come scelta di ogni singolo istante dell'esistere.
 

Un saggio filosofico sulla nostra impossibilità di pensare autenticamente il presente,
il passato e il futuro, e sui paradossi e assurdità della ragione come strumento conoscitivo.
Ancora una volta, un'introduzione all'Attimo che fugge.


*****
OTTO LIBRI DI IMMAGINI
in collaborazione con la musica del M.o Marco Sala

******  CLICCA QUI PER LA VISIONE  *****

OPERE CINEMATOGRAFICHE







RACCONTI PER IL CINEMA

Tratte dai racconti, sono pronte 6 sceneggiature per relativi nuovi film.



 GLI EVENTI FILOSOFICI  

Per  anni Mario Roccato è stato l'ideatore, il promotore
e il conduttore di oltre quaranta eventi filosofici
con alcuni tra i più noti esponenti della cultura e della filosofia.
Tra di essi: Natoli, Sini, Cariolato, Giorello, Reale,
Ferrari, Donà, Zecchi, Crepet,
Pasqualotto, Folin, Maggioni, Corsi, Givone...




Mario Roccato





Torna ai contenuti